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Tuscia in Tavola

Piatto
CAROTE DI VITERBO
Ingredienti
Carote secche gr. 500, Aceto di vino 3 litri, Zucchero kg. 1,200-2,500, Cannella in stecche gr. 15, Chiodi di garofano 12, Noce moscata 2, Pinoli gr. 100, Cioccolata in polvere, Anice in semi gr. 50, Canditi.
Istruzioni
Le verdure più famose di Viterbo sono certamente le carote in agro-dolce, riportate anche nel talismano della felicità di Ada Boni con il titolo «Barbabietole in bagno aromatico (carote di Viterbo)»; nella descrizione della ricetta la famosa gastronoma parla erroneamente di barbabietole «a forma allungata come quelle gialle». Ebbene queste barbabietole sono vere e proprie carote di colore viola e con nodo quasi assente, riportate anche nei testi di agronomia, perché ricche secondo gli esperti non già di pigmenti carotenoidi, bensì di pigmenti antocianici. A Viterbo e, secondo notizie riportate su testi di agraria, anche in altre zone, venivano chiamate pastinache. Attualmente di questa varietà, secondo ricerche da noi fatte in Italia ed in alcune nazioni europee, non si riesce più a reperire il seme poiché per una proprietà di queste piante è facile l’incrocio e quindi la degenerazione della cultivar quando vengono seminate vicino ad altre varietà di carote. Ultima custode gelosa di questo seme è rimasta a Viterbo la famiglia di un noto professionista che pazientemente riesce ancora a raccoglierne la quantità sufficiente per mantenere la tradizione casalinga di questo piatto. Fino a qualche anno fa anche le suore di clausura del Monastero di S. Rosa, la santa di Viterbo, preparavano e conservavano, per farne dono a benefattori ed amici, le famose carote, ma attualmente hanno smesso di produrle per mancanza di semi. L’origine di questo piatto si perde, come tante altre cose viterbesi, nella leggenda etrusca. Nessuna notizia di esso compare nelle cronache medioevali, al tempo della presenza dei Papi a Viterbo, mentre la prima notizia certa, risale al 1827, anno in cui è datata una certa ricetta di queste carote che il solerte dottor Attilio Carosi ha ritrovato fra i tanti documenti della Biblioteca degli Ardenti di Viterbo. Per molti anni queste carote vennero preparate prevalentemente dalle famiglie aristocratiche di Viterbo e conservate in artistici vasetti di terracotta dei quali si conservano ancora alcuni esemplari che andrebbero raccolti come testimonianza del costume e delle tradizioni locali. Successivamente gli Schenardi, proprietari dell’omonimo famoso caffè, si diedero alla confezione di queste carote, perfezionandosi al punto da ottenere il primo premio all’Esposizione di mostarde e carote tenutasi in S. Francesco a Viterbo nel 1879. Successivamente anche il droghiere Giovan Battista Ciardi si dedicò alla produzione di questi vasetti, durata fino a dieci anni fa, quando iniziò appunto l’inquinamento della cultivar. Secondo notizie non ben controllate, ebbero modo di apprezzare questa specialità viterbese Giuseppe Garibaldi e Gregorio XVI, Ferdinando IV e Carolina d’Austria, mentre, sempre secondo alcune voci, abituali consumatori erano i regnanti di casa Savoia.
Note
Per preparare questa ricetta occorre procurarsi queste famose carote di colore viola, si lavano e quindi si fanno bollire in acqua calda fin quasi a cottura, poi si lasciano raffreddare e si tagliano quindi a fette longitudinali, spesse sui 3 millimetri, mettendole poi ad asciugare al sole di luglio. Quando sono essiccate si accartocciano a spirale. Una volta si trovavano a vendere già essiccate in alcuni negozi di verdura, ed era a questo punto che cominciava il lavoro casalingo che consisteva nel prendere 500 gr. di queste carote già seccate, metterle a bagno in un recipiente di coccio in aceto di vino, lasciandovele per 5 giorni secondo alcuni (o anche più secondo altri) e facendo in modo che potessero rimanere completamente sommerse anche quando si svolgevano aumentando di volume. Una volta scolate si preparava un tegame di terraglia, vi si versava l’aceto rimasto del bagno insieme con lo zucchero (kg. 1,200 fino a kg. 2,500 secondo le varie ricette) e la cannella a stecche (15 grammi o più) e si faceva bollire il tutto per una quindicina di minuti in modo che questo liquido si concentrasse un poco, dopodichè si univano le carote che vi rimanevano per alcuni minuti. Si lasciavano poi a raffreddare nello stesso recipiente di terraglia dopo di che si aggiungevano 10-12 chiodi di garofano, noce moscata (e anice secondo alcuni) quindi si ripeteva l’ebollizione fintantoché non erano intenerite al punto giusto ed il liquido ancora più concentrato e dolciastro. Al termine era facoltativo aggiungere la cioccolata, l’uva passerina, i pinoli e secondo alcuni, anche i canditi. A questo punto le carote in agrodolce erano pronte per essere conservate nei caratteristici vasetti. Il modo migliore per gustarle è quello di accompagnarle con un buon bollito misto.
Ricette Tratte Da
ITALO ARIETI, Tuscia a Tavola. Ricette, Curiosità, Prodotti, Tradizioni gastronomiche della Provincia di Viterbo, VI edizione, Primaprint, Viterbo 2005.
CAROTE DI VITERBO
 
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